Quando sono al mare, non ho idea se a causa dei benefici effetti della
brezza marina o per una sorta di reazione all’immobilismo tipico delle piccole
località marine, mi sveglio con un pensiero fisso, sempre lo stesso, come un
tarlo che mi picchetta i neuroni: cosa
mangiamo per cena ?
Il non rispondere a questa domanda mi crea afflizione, mi porta in un limbo
dal quale non riesco ad uscirne, se non quando, con bieca emulazione del guizzo
creativo che ebbe Archimede mentre
faceva il bagnetto, posso anch’io esclamare: “Eureka !”.
Se prima dell’illuminazione il mio comportamento è chiuso, scontroso, ai
limiti dell’autismo, dopo diventa spumeggiante, radioso, euforico, al pari
dell’archeologo che ha appena trovato il pupazzetto ammuffito dentro al
sarcofago.
Da quel momento, ogni mio pensiero, ogni mia azione, ogni mio dire, è finalizzato
al raggiungimento dell’obiettivo, proprio come fossi un vero uomo di business.
Papi, scendiamo in spiaggia ? Un momento,
amore, papà ha alcune commissioni urgenti per la mamma da fare (menzogna di tipo affettivo: beh, se è per la mamma...).
Papi, giochi un po’ con me ? Un momento,
amore, papà deve andare a prendere i soldi al bancomat (menzogna di tipo
economico: se non prendo i soldi diventiamo poveri).
Amore, che fai, scendi in spiaggia con noi
? Magari potessi, amore, ma ne approfitto per sistemare il lavandino che goccia (menzogna di tipo strategico: ho allentato io, nottetempo, il dado del
lavandino).
La pianificazione che ne segue deve pertanto essere di precisione massima,
con le singole attività ed i relativi tempi che si innestano e si combinano con
precisione svizzera.
Deve anche essere ragionevolmente furba, la pianificazione, per non svelare
il totale disinteresse per tutto ciò che non sia finalizzato alla cena, agendo
con finissima strategia e separando, con gioia dei dualisti, mente e corpo, in
modo che apparentamente fate delle
cose, mentre il realtà state pensando
ad altro.
Papi, ti stai divertendo con me sul pedalò
? Pedalò ? Quale pedalò ? Ah si, certo, amore, mi sto divertendo moltissimo,
anche se mi sembra di vedere in lontananza uno tsunami, per cui è meglio
rientrare.
Bene, dopo lo scampato tsunami e
forte di una pianificazione precisissima, prende avvio la fase operativa, ben
mascherata anch’essa da finte esigenze di altro tipo, che con curiosa casualità
devono, guarda caso, essere indirizzate adiacentemente ai migliori fornitori
gastronomici che Anzio annovera.
Ciavattine ai piedi, magliettina rigorosamente Decathlon – sorvolo sulla
taglia, per non riempire la discussione di un eccessivo numero di X – bermuda
simil-coloniale, si parte.
Essendo oramai caduto preda delle usanze paesane, molto più rilassate e
chiacchierecce di quelle della grande metropoli, la spesa che a Roma si
potrebbe fare in una mezz’oretta, in quel di Anzio si dilata su almeno un paio
d’ore, principalmente impegnate in amene discussioni con i vari fornitori, che
vanno dalla metafisica, alla gnocca (non in senso gastronomico), alle
bio-tecnologie, al calcio.
Tutto questo dire nel mentre il pescetto viene pulito, la verdura pesata,
il pane incartato, ricordandosi che mai deve essere messa fretta, con sguardi
malcelati all’orologio ed accenni di sbuffi, come a dire “ma insomma, cacchio, ho un sacco di cose da fare e poi non lo vede
‘sto negoziante che fuori c’è la fila ?”, per il semplice motivo che, in
luogo di mare, non ci sono cose da fare e le file non sono mai di attesa, ma
momenti di pura introspezione, che interrompono un frenetica andare da nessuna
parte. Su questo non di discute. Punto.
Il rientro a casa, con le sporte ben piene, diventa un percorso
immaginifico , dove i piatti si creano nella mia mente, evolvono, maturano, in
un tutt’uno armonico, che nulla ha da invidiare al pecorso creativo che porta
il compositore a produrre la sua migliore sinfonia.
Se la sinfonia si ascolta, il cibo si degusta.
E’ solo questione di scegliere il senso adatto e nessuno, mi sembra, abbia
mai fatto questioni su quale senso sia più importante dell’altro.
Quindi, tornando a bomba, il ritorno a casa è lento, così come lo è stata
la spesa. Lento e meditato, con sguardo etereo, a visualizzare nella mente ciò
che sarà in cucina, ignorando i passanti ed i loro sguardi complici, quasi a
dire: “ecco, guarda come ti riduce la
droga, camminare incerto e sguardo perso nel vuoto”.
Meschini, dico io, meschini che non capite il valore di ciò che sta
prendendo forma nella mia mente; meschini che il vostro unico credo è la dieta,
la forma fisica; meschini che, spaparanzati sotto l’ombrellone altro non avete
che da perdervi in discussioni fatue del tipo: “ho provato la dieta fames,
la prima settimana solo pane secco, la seconda pane inzuppato nell’acqua ed la
terza un sana fleboclisi in terapia intensiva” – “ma figurati, vuoi mettere con la mia, la dieta scindendum, che ti fa mangiare di tutto ma in modo separato, per
cui il primo giorno pasta lessa scondita; il secondo una bella scodella di
sugo; il terzo un cucchiaio di parmigiano, versato a pioggia nel gargarozzo; il
quarto l’acqua calda della cottura”.
Io vi ascolto e sorrido. Sono per il fatalismo. Fai una dieta fantastica,
raggiungi una forma fisica strepitosa, esci la mattina di casa tronfio e
soddisfatto e una betoniera, fuori controllo, ti cementifica sul posto. Così è
la vita.
Morirò grasso, ma felice. “Ma cosa
dici !”, direte voi, “Stai forse
dicendo che per essere felici bisogna essere grassi ?”. Ebbene si, se anche
voi siete felici – e lo spero – io lo sono un po’ di più. Voi siete felici-che-di-più-non-si-può ? Io,
allora, sono felice-che-di-più-non-si-può-più-un-altro-pochino.
Basta, la chiudo così, lasciandovi il lecito dubbio se il mio analista,
forse, non sia in ferie.
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